Il Principe pitocco e l’unguento magico 2 parte

L'origine del soprannome di Moena

3ª PARTE

Chi ti dà del maiale pensando di offenderti è uno stolto, giacché non solo non conosce la tua storia, ma nemmeno il valore di un maiale. Devi sapere che, moltissimi anni fa, a Moena viveva un uomo di sangue nobile e molto ricco. Abitava in un castello e si racconta fosse addirittura un principe».
Vigilio ascoltava attento: «A Moena un principe? Un castello? Wow…». «Lungo la strada Salejada, dove ancora oggi c’è un edificio detto Ciastel de la pitocaia, “Castello della pitoccheria”», proseguì suo padre, «abitava il principe con la sua servitù. Possedeva terreni, bestiame, cavalli e una grande stalla con tantissimi maiali. Come ben sai, il maiale è sempre stato un animale prezioso per l’uomo. Del maiale non si butta nulla, nemmeno il sangue. Pensa che tua nonna con il sangue preparava una torta, e sapessi come buona!».
Non vi dico le smorfie che faceva Vigilio. Che disgusto! Per fortuna sua madre non faceva torte simili! «E poi», continuò il padre, «il maiale è un animale intelligente: ha orecchio e naso molto fine, tant’è che in altre parti d’Italia viene impiegato nella ricerca del tartufo. Comunque… torniamo al principe. Si chiamava Vigilio come te, in onore del nostro santo patrono, e parte della sua fortuna l’aveva fatta proprio grazie ai suoi maiali. Egli vendeva la carne e con il grasso preparava un unguento particolare, usato per guarire le malattie della pelle, come per esempio il fuoco di sant’Antonio. Era un gran devoto di questo santo e, come lui, realizzava questo unguento miracoloso. Per questo aveva voluto nel suo castello una cappella, e sulla porta della stalla aveva fatto dipingere un bel ritratto del santo con accanto un maiale e altri animali domestici.
Il principe era ricco, ma aveva anche la fama di essere molto tirchio. Perciò si era guadagnato il soprannome di Prinzipe pitòch, ovvero “Principe pitocco” e il castello era chiamato quindi Ciastel da la pitocaia, “Castello della pitoccheria”.
Si racconta che, una volta all’anno ‒ ed esattamente il due di novembre in occasione della Fiera di sènc, la Fiera dei santi, organizzata in occasione della festa di Ognissanti appunto ‒ il principe si presentava con la sua servitù per commerciare i maiali e l’unguento. Persone provenienti da tutti i paesi della valle e dalle valli vicine giungevano a Moena per mercanteggiare, soprattutto animali. Era bello vedere tanti animali in giro per il paese e in particolare tutti quei maiali. Il suono di campane e campanellini di ogni misura rendeva il tutto allegro e festoso, soprattutto per i bambini.

Un anno però c’era stata una grande carestia. In quell’occasione l’atmosfera era stata ben diversa. In paese era giunta poca gente, gli animali erano pochissimi e ancora meno le persone che potevano spendere o che avevano qualcosa da offrire. Non era stata una festa come le altre: di allegro aveva avuto ben poco e si era conclusa prima del solito. Quella sera, fra le persone che tornarono a casa dalla fiera, c’era anche il principe. Era molto triste, non tanto per gli affari miseri, quanto perché avvertiva un grande disagio. Era sì tirchio, ma in realtà aveva anche un gran cuore e non sopportava l’idea che la sua gente fosse in miseria. Sapeva che avrebbe potuto fare qualcosa… ma cosa? Cosa poteva fare per aiutare tutta quella gente? Si recò nella cappella e pregò sant’Antonio. Gli affidò i suoi pensieri, si recò a letto e, come spesso avviene, la risposta gli fu rivelata in sogno.
Il giorno seguente, di primo mattino, si alzò di buonumore e mandò a chiamare il suo servitore più giovane e gli disse: «Domani è domenica. Dopo la messa chiamerai a raccolta tutti i capifamiglia del paese e dirai loro che si facciano trovare alle due del pomeriggio nel mio prato a Someda. Loro sanno qual è. Lì, porterai tanti maiali quanti ne bastano per sfamare le famiglie più povere del paese di Moena. Loro ti aiuteranno. Una volta terminato, qualcuno ti darà una mano a portarne quanti ne servono a Soraga. Poi proseguirai e ne porterete quanti ne occorrono a Vigo e così di seguito, fino ad Alba e Penia di Canazei. Ad Alba gli uomini di tutta la valle costruiranno una chiesa dedicata a sant’Antonio, il quale proteggerà le case e le stalle della gente di Fassa e non conosceremo più carestia».
Il giorno seguente, su quel prato, che da quel giorno si chiama Ciamporcel ‒ ovvero “Campo del maiale” ‒ le famiglie più povere del paese ricevettero in dono un maiale, e una carovana di maiali partì alla volta dell’alta valle. Non potete nemmeno immaginare quale gioia portò ovunque quello scampanellìo. Ogni giorno la spedizione raggiungeva un nuovo paese, e quando arrivò a Penia, la fama del Principe Vigilio era giunta perfino nelle valli limitrofe. Quell’autunno e quell’inverno molti furono gli uomini che si diedero da fare per la costruzione della chiesa e, dall’anno seguente, il 17 gennaio, festa di sant’Antonio Abate, tutta la popolazione della val di Fassa si reca a Alba per la sagra e fa una grande festa.
Caro Vigilio, è da allora che gli abitanti di Moena vengono soprannominati “maiali”, dunque vanne fiero e ricorda che è importante conoscere le proprie radici: attraverso di esse puoi capire molto di te, della tua famiglia e della tua storia».

FINE

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Il Principe pitocco e l’unguento magico

Moena

1ª PARTE

Vigilio era un ragazzo di Moena. Abitava vicino a Piazza Ramon, in una stradina chiamata Strada de Ciavadela. Aveva tredici anni, era “quasi un uomo” come gli diceva suo padre, ed era molto vivace. La sua grande passione era il bosco: gli piaceva trascorrere il tempo nei boschi sopra casa, scoprire la natura e i suoi segreti. Stava ore intere a osservare un formicaio oppure ad aspettare che uno scoiattolo scendesse da un abete. Osservare la natura e rispettarne i tempi erano due attività che aveva appreso dal padre il quale era un cacciatore anche se, in verità, un po’ anomalo. Infatti egli amava gli animali e la licenza di caccia l’aveva conseguita da giovane quando per poter mangiare ci si doveva arrangiare soprattutto con quello che offriva la natura. A quei tempi i fucili non erano un granché, la licenza costava poco e chi andava a caccia doveva camminare molto.
A casa sua, quando si uccideva un animale, si faceva una sorta di festa e tutto veniva eseguito seguendo un rituale. Si ringraziava l’animale per il nutrimento che offriva, e si imparava anche a conoscerlo e a prendersene cura, se necessario, durante la sua vita. Quando ad esempio, durante gli inverni gelidi, i caprioli uscivano dal bosco e si avvicinavano alle case in cerca di cibo, si preparavano al limitare del bosco alcune mangiatoie con fieno e pane secco.
Vigilio aveva sentito suo padre raccontare di quei tempi un’infinità di volte. Quando andavano a caccia, facevano lunghe camminate e parlavano molto. Una volta arrivati, si posizionavano in posta, come si dice in gergo, appoggiavano il fucile su una piccola altura e si abbandonavano ad ammirare il sole che nasceva o che tramontava. Se poi passava di lì un animale, grande o piccolo che fosse, lo osservavano sempre con grande stupore. Di rado uccidevano. Per loro andare a caccia era prendersi del tempo per sé, stare a contatto con la natura e anche farsi qualche confidenza.
Anche quella sera d’autunno Vigilio e suo padre erano andati a caccia. Il sole sarebbe tramontato da lì a poche ore. Avevano preparato gli zaini ed erano saliti all’Alpe di Lusia, l’alpeggio di Moena. Lassù, in quella stagione, c’era una pace incredibile. I colori erano straordinari e chiunque, una volta visti, avrebbe faticato a non cedere alla tentazione di tornare per ammirarli. Il sole stava quasi scomparendo. Le lunghe ombre dei larici sembravano animarsi. Era fantastico. Su un colle, avvolti in una coperta, Vigilio e suo padre si godevano in silenzio quello spettacolo.
Il ragazzo era insolitamente taciturno e suo padre, che lo conosceva bene, gli chiese cosa avesse. Vigilio raccontò che quel giorno a scuola un suo compagno l’aveva preso in giro dicendogli che era un maiale poiché gli abitanti di Moena vengono soprannominati porcìe, ovvero “maiali”, ma egli non ne era a conoscenza e non comprendeva nemmeno la ragione di quell’appellativo poco elegante. Perciò c’era rimasto malissimo e non aveva saputo replicare.
Il padre scoppiò a ridere, lo guardò negli occhi e disse: «Figlio mio, è ora che tu conosca le tue radici.

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La sorgente misteriosa 3 parte

Salvan

3ª PARTE

In verità il salvan non era arrabbiato. Era divertito e se la rideva sotto i baffi, ma mantenne un’espressione seria così da continuare il suo scherzo e disse:

«Donca picoi fornac
ve l’aede cavada
e ajache no l’aede falada,
ve lasceré en don tant l bol che l’èga
se saede co far a lasciar chesta valada».

«Dunque piccoli abitanti di Forno,
ce l’avete fatta
e visto che non l’avete mancata,
vi lascerò in dono sia l’ematite che l’acqua
se riuscirete a lasciare questa vallata».

Figuratevi lo stupore dei due fratelli. 

Invece il salvan fu di parola e donò loro due coppette in legno. In una vi era l’ematite e nell’altra l’acqua. Giacomo e Filippo non riuscivano a credere a quanto stava succedendo, sembrava tutto un sogno: non proferirono più alcuna parola e, chinato il capo in segno di riconoscenza, ripresero il sentiero che portava a casa.
Non fu facile scendere senza rovesciare nulla e, quando finalmente spuntarono dal limitare del bosco, il sole stava per tramontare e gli animali erano ancora nello stesso prato dove li avevano lasciati. «Meno male», disse Giacomo, tirando un sospiro di sollievo. «Che fortuna che abbiamo avuto», aggiunse Filippo. E Giacomo ancora: «Che paura però. Adesso portiamo tutto a casa e tu non farti mai più venire in mente certe cose!». «Hai ragione», rispose il fratello, «però prima di mostrare al papà e alla mamma cosa abbiamo portato, raccontiamo loro la nostra avventura. Nel frattempo queste due ciotole le nascondo nella stalla».
Così durante la cena i due raccontarono per filo e per segno cosa era successo, e quando venne il momento di mostrare i doni del salvan, si recarono nella stalla. Aprirono il grande portone e… cosa videro? L’asino si era bevuto tutta l’acqua e con il muso ancora arrossato dall’ematite aveva abbellito i muri di un bel colore rosso naturale. Giacomo e Filippo si guardarono: “Era di nuovo uno scherzo di quel… coso? Quell’uomo selvatico?”.
Il padre osservò la scena e, con un’espressione che ricordava quella del salvan quando li aveva beccati in flagrante, rivolto ai figli disse:

«No le aede mia dute a cuert:
siede valenc, ma ence bogn zucogn,
siede desche chel,
doi asegn e mutogn!».

«Siete un po’ bislacchi:
siete buoni, ma anche dei gran zucconi,
siete come quello,
due asini e tontoloni!».

Da allora gli abitanti di Forno sono chiamati musciac, ovvero asini, come si dice in ladino fassano o anche musciati, come li chiamò dal quel giorno la loro madre.

FINE

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La sorgente misteriosa 2 parte

La sorgente misteriosa

2ª PARTE

Camminarono a lungo finché, a un certo punto, si accorsero di non riuscire bene a comprendere quanto tempo fosse trascorso dalla loro partenza. Era una sensazione strana, il tempo sembrava come sospeso.
Mai avrebbero potuto immaginare cosa stava accadendo. Il salvan li aveva visti arrivare e, uditi i loro discorsi, aveva deciso di divertirsi un pochino. Aveva così pronunciato un incantesimo secondo il quale chi giungeva nel bosco perdeva la concezione del tempo.
Nel mentre, poco distante dal sentiero, Filippo e Giacomo videro una sorgente d’acqua zampillante che veniva raccolta in alcuni tronchi scavati a mo’ di fontana. Subito pensarono che si trattasse di una sorta di contenitori d’acqua per gli animali del bosco ma in seguito sorse loro un dubbio. E se fosse stata quella l’acqua benedetta? Come fare però per saperlo?! E anche se si fosse trattato dell’acqua che cercavano… come avrebbero fatto a portarla a casa? Non avevano portato nulla con sé e… toh, chi si vede! I due fratelli erano rimasti impietriti: il salvan era davanti ai loro occhi in carne, ossa e pelo, molto pelo coperto in parte da corteccia di albero e da pigne. Mamma mia quanto era brutto!
Il salvan si avvicinò e li osservò a lungo, in silenzio; girò loro attorno e, infine, disse alcune parole. La sua lingua sembrava quasi ladino, ma era diversa, forse un ladino arcaico. In verità non si capiva bene cosa dicesse. Di certo è, che di quella parlata triviale, i due fratelli riuscirono a intendere solo che quell’acqua era per gli animali del bosco e che la sorgente si chiamava Brenc. Quella che cercavano loro invece si trovava più avanti e in un luogo molto difficile da raggiungere. Egli avrebbe potuto aiutarli, ma a una condizione: prima avrebbero dovuto conquistare la cima della Valsorda, trovare la cava del bol ‒ ossia le miniere di ematite ocra rossa ‒ e prenderne un po’ per lui, dopodiché li avrebbe aiutati.
Un tempo, con questa pietra rossa e friabile, i pastori e i cacciatori tracciavano sulle rocce delle montagne scene di vita pastorale, di caccia e frasi che volevano lasciare come segno del loro passaggio. Il salvan ne voleva un po’ per sé per decorare la sua grotta.
Non ci voleva anche questa! Fortunatamente ai due ragazzi sovvennero le parole del padre e così acconsentirono alla richiesta del salvan e, seppur controvoglia, salirono verso la cava. Ci volle un bel po’ prima che raggiungessero la meta e, una volta arrivati, non riuscirono a trovare nulla. Lassù c’era ancora un bel po’ di neve che ricopriva ogni cosa con la sua coltre bianca. Fu allora che si resero conto che, sebbene avessero attraversato il bosco bagnato e camminato in pozzanghere, macchie di neve e d’essersi immersi fino al ginocchio, erano ancora perfettamente asciutti e puliti.
«Che magia è mai questa?» disse Filippo ad alta voce rivolgendosi a Giacomo. «Dovremmo essere bagnati e sporchi. Qui c’è qualcosa di misterioso, fidati». «Beh, di che ti lamenti?» rispose il fratello. «Almeno nostra madre non si arrabbia. Se qui c’è da preoccuparsi è per qualcos’altro. Ormai siamo sicuramente via da un bel po’ di tempo, sono successe troppe cose… speriamo di tornare prima che faccia buio. Certo però che è strano… in verità qui tutto sembra strano e la cosa non mi piace per nulla».
Eh sì, non c’era tempo da perdere.
Finalmente più tardi arrivarono in cima, trovarono la cava e, grazie agli attrezzi consegnati loro dal salvan, riuscirono a raccogliere l’ematite. La riposero con cura in un sacchetto e cominciarono a scendere rapidamente. Mentre stavano scendendo, improvvisamente udirono un rumore forte, come il frastuono di un vigoroso corso d’acqua. Si fermarono e videro una bellissima cascata, poco dietro il colle dove si trovavano. Il sole penetrava attraverso i rami degli abeti ancora ricoperti di neve, illuminandola. «Che acqua! Sembra miracolosa!» disse Giacomo. «Vuoi vedere che è l’acqua che cercavamo?» rispose Filippo. «Pensa, non dovremo neppure tornare dal salvan. Se ci affrettiamo riusciremo a portare a papà l’acqua e l’ematite, così potrà tinteggiare tutta la casa e benedirla».
Il ragazzo aveva appena finito di proferire le ultime parole che, da dietro un sasso, vide spuntare la testa del salvan. I due fratelli impallidirono… avevano pensato di derubare il salvan della sua ematite, ma non avrebbero mai dovuto neppure prendere in considerazione un’idea del genere! Probabilmente sarebbero finiti in un pentolone e, poi, chissà.

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La sorgente misteriosa 1 parte

La sorgente misteriosa

1ª PARTE

«Filippo, Giacomo, venite!».

Era un sabato pomeriggio di una primavera anticipata. Due fratelli dai capelli del colore del grano maturo stavano bighellonando con alcuni amici sotto casa. Abitavano con i genitori nella piccola frazione di Forno, non lontano da Moena. Erano gemelli e portavano lo stesso nome dei santi patroni del vicino paese di Predazzo, in val di Fiemme. La loro madre era originaria di lì e loro erano nati proprio il venticinque luglio, giorno della sagra del paese.

«Arriviamo». I due erano corsi subito dal padre che li attendeva davanti all’uscio della stalla. «Sentite ragazzi, oggi è una bellissima giornata. Ho visto che in alcune zone, qua vicino, si comincia già a vedere la prima erba nei prati. Potreste condurre le mucche e l’asino un po’ all’aperto. In quel prato sotto casa esposto al sole la neve si è già sciolta. Andateci, ma mi raccomando non andate oltre l’Arca. Che non vi venga in mente di allontanarvi. Non vorrei mai che incontraste il salvan o qualche bregostana».

I due si guardarono dubbiosi e Giacomo, il quale di solito era il più lento a capire le cose, disse a suo padre: «Arca? Io ho già sentito parlare di quella di Noè! Salvan? Bregostana? E chi sono costoro?». «Devo spiegarvi proprio tutto?» disse il padre alzando le braccia al cielo. «Non si può abitare in queste zone e non sapere certe cose! Possono rivelarsi d’importanza vitale, soprattutto quando si abita vicino al bosco. L’Arca non è altro che quel grande prato qui vicino. Si chiama così perché animali e persone possono starci al sicuro come sull’arca di Noè. In tempi remoti quella zona è stata benedetta con un’acqua speciale che ha la sorgente in Valsorda. È per questo motivo che lì non arrivano mai lupi malintenzionati, e nemmeno ladri, streghe o bregostane. Nessuno. Lì siete al sicuro».

«In Valsorda? Qui sopra casa papà?» lo interruppe Giacomo. «Sì, proprio qui vicino. Peccato che non si riesca più a trovare quella sorgente, altrimenti spargerei un po’ di quell’acqua anche attorno a casa e nel bosco. Comunque avete capito? Ah, a proposito del salvan: è un essere coperto di peli, corteccia di albero e pigne, e ha una barba molto lunga. Vive nelle caverne delle montagne e tutto sommato è buono. Ma guai a chi lo fa arrabbiare. È molto forte fisicamente ed è meglio tenerselo buono».

Poi, come immerso in una visione si interruppe e, poco dopo, riprese dicendo: «Un’ultima cosa, ragazzi: mio padre, quando ero giovane come voi, un giorno che eravamo al pascolo con le capre nella zona qui sopra casa e ancor più su, oltre le case di Medil, mi aveva mostrato una piccola caverna e mi aveva detto:

«Chel l’é l cógol del salvan.
Chel dì che tu l scontre
pol esser che tu aesse bon
o che tu aesse dan.
Varda che che tu dis
e che che tu fas,
a el no ge sćiampa
nince se tu möve l nas.
Ma se tu te mosceras valent,
calche secret l te conterà
e to vita mudar la poderà».

«Quella è la grotta del salvan.
Il giorno che lo incontri
può essere un giorno fortunato
o che tu sia scalognato.
Stai attento a quel che fai
e a ciò che dici,
a lui non sfugge
nemmeno se muovi le narici.
Ma se ti dimostrerai buono,
qualche segreto ti svelerà
e la tua vita mutare potrà».

Così mi aveva detto, ma in verità, io non ho mai incontrato il salvan. Comunque adesso che vi ho messi in guardia, andate e prestate attenzione! Ci vediamo all’ora di cena».

Che storie bizzarre! I due erano rimasti a bocca aperta. Giacomo era piuttosto impaurito e Filippo non smetteva di pensare alle parole del padre. Fecero uscire gli animali dalla stalla e si recarono verso il prato chiamato l’Arca.

Stare all’aria aperta in una giornata come quella, dopo il freddo del lungo inverno, era davvero piacevole e la mattinata passò velocemente. Durante il pomeriggio Filippo, il quale pensava sempre di saperne una più del diavolo, disse a suo fratello: «Senti Giacomo, io andrei a farmi un giretto nel bosco. Mi sono stufato di stare qua. Voglio provare a cercare quest’acqua benedetta. Pensa, se la troviamo possiamo far benedire tutta la casa… ma che dico, ci facciamo benedire anche noi, così non avremo mai più paura di nulla!» e scoppiò in una fragorosa risata. Giacomo gli rispose: «Non passa giorno che non pensi o combini qualcosa di strano. Comunque da solo non vai da nessuna parte, vengo anch’io con te. Per un po’ lasceremo qui gli animali da soli. Cerchiamo però di fare in fretta».

E così, in un batter d’occhio, scomparvero dal prato, per riapparire sul sentiero che percorre la Valsorda, una valle stretta e ripida che segue il corso di un torrente. Il bosco era fittissimo con una vegetazione molto ricca. L’ambiente era così umido che pareva di essere in una foresta tropicale, anziché in un bosco vicino a casa….

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