Zuccherini alcolici: come concludere un pasto in allegria

Chiudiamo gli occhi.

Dimentichiamoci per un attimo del presente per tornare, almeno a livello concettuale, a quelle che sono sempre state le nostre abitudini, la nostra quotidianità, insomma un anno qualsiasi in cui la stagione invernale è partita regolarmente: impianti e rifugi aperti, hotel e appartamenti prenotati fino a Pasqua, strade trafficate da macchine e pedoni e bar e ristoranti che lavorano senza sosta.

Immaginiamo, insieme…

La sveglia suona. È presto, sono le 7 appena. Ci affacciamo alla finestra, il meteo aveva previsto bene, è una splendida giornata di sole, neanche una nuvola a coprire il cielo di Moena. Esatto, ci troviamo a Moena, nel cuore della Val di Fassa e, prima di iniziare concretamente la giornata, ci soffermiamo per qualche istante a godere dello spettacolo che abbiamo di fronte: quel panorama che fino a qualche giorno prima ammiravamo con un pizzico di invidia solo dalle cartoline ricevute dagli amici di una vita ma che ora, finalmente, abbiamo davanti ai nostri occhi.

Riprendiamo fiato, non c’è tempo da perdere: ci prepariamo per una giornata da vivere a pieno, con gli sci in spalla ed immersi nel bianco che ci circonda. Cerchiamo così di goderci ogni secondo di quell’esperienza, dall’emozione nel risalire gli impianti, al divertimento di sciare spensierati pista dopo pista, senza preoccupazioni esterne, staccando per una volta la mente dallo stress quotidiano.

Il tempo quando si sta bene vola, si sa, e così si è già fatta ora di pranzo. Andiamo nel rifugio che ci è stato consigliato proprio da loro, i nostri amici che tanto erano affezionati a quei posti. Ci hanno sempre raccontato di quanto fossero accoglienti i ristoratori di montagna, e di quanto l’anziana proprietaria di quel rifugio trattasse ogni cliente come un membro della sua famiglia. E proprio come ci avevano raccontato, per qualche ora ci siamo sentiti come a casa, bene, e, tra una chiacchiera, un bel piatto caldo e qualche calice di vino, è arrivato il momento di pagare e rimettersi in pista. Ma è in quel momento che veniamo fermati proprio dalla proprietaria del rifugio: non possiamo andarcene senza aver provato i suoi zuccherini alcolici che lei stessa ha preparato con cura da offrire ai propri clienti, “il modo migliore per scaldarsi e digerire allegramente”.

Sono riuscita a farvi viaggiare insieme a me, almeno per qualche istante? Facile vero? Alla fine non si tratta che di ricordi, e, in caso contrario, ho qui pronta la preparazione proprio degli zuccherini alcolici, zollette di zucchero lasciate a riposare nell’alcol ed aromi vari, tipici di molti luoghi di montagna. Essendo che in questo periodo non possiamo assaporarli in alta quota data la riapertura posticipata degli impianti, niente ci vieta di prepararli direttamente a casa così da riportare alla realtà almeno una parte di queste nostre fantasie.

INGREDIENTI:

– Un vasetto di vetro

– Alcol puro (alimentare) q.b.

– Zollette di zucchero q.b.

– Aromi, spezie, erbe a volontà

È una procedura molto semplice dove l’unica dote richiesta non è altro che la fantasia!

La prima cosa da fare è procurarsi un vasetto di vetro, meglio se a chiusura ermetica ma anche vecchi vasetti di marmellate o miele vanno benissimo: è sempre un piacere poter riutilizzare oggetti già presenti all’interno delle nostre case.

Ora è il momento di inserire le zollette di zucchero alternate dai vari aromi all’interno del vasetto di vetro, per poi riempirlo fino all’orlo di alcol puro o in alternativa, si può utilizzare anche la grappa.

Per quanto riguarda gli aromi, è proprio qui che entra in gioco la fantasia sopra citata, senza limiti né confini, date spazio all’immaginazione e alla soddisfazione del vostro palato: si può spaziare dalla menta ai chiodi di garofano, dalla buccia di vari agrumi alle bacche di vaniglia, insomma, nessun vincolo se non il vostro gusto personale.

A questo punto non rimane che sigillare per bene il barattolo e lasciarlo riposare per circa un mese di tempo, meglio ancora se in un posto soleggiato.

Trascorso il tempo necessario, è giunto nuovamente il momento di chiudere gli occhi e volare con la fantasia, ma, diversamente da prima, con uno zuccherino in mano, pronto da assaporare, sentendo questa volta il profumo dei ricordi di montagna un po’ più vicini e concreti, e pronti per ripartire, più carichi che mai, appena tutto sarà pronto e sistemato.

“Bondì, bombona a mi”

Qual è la vera importanza delle tradizioni? Che rilevanza può avere tramandare, di generazione in generazione, un’idea, un concetto, un momento di condivisione e di gioia?

Sono una studentessa “fuori sede” da cinque anni, ho avuto modo di confrontarmi con tanti ragazzi e ragazze provenienti da tutta Italia e non solo. Ho avuto molti momenti di confronto riguardo a questa tematica ed è sempre bello ed interessante poter ascoltare le tradizioni e le usanze tipiche provenienti da nord a sud e oltre, ma ciò che è ancora più bello ed emozionante è vedere gli occhi affascinati di chi ti ascolta quando, con una buona dose di orgoglio e patriottismo, posso raccontare tutte le tradizioni che in Val di Fassa si tramandano da secoli, generazione dopo generazione.

A Moena e in Val di Fassa di tradizioni ne “vantiamo” molte, e non ci facciamo mancare nemmeno un buon saluto al nuovo anno, perché è proprio della magia del primo giorno di ogni anno che vi vorrei parlare.

“Bondì, bombona a mi”.

Ricordo quando da bambina mi svegliavo presto la mattina di capodanno, carica di emozione mi vestivo di fretta perché era arrivato il momento di andare a bussare alla porta della mia “nona” e del mio “non”, termini ladini che indicano rispettivamente la madrina e il padrino di battesimo, per poi recitare la tipica frase “bondì, bombona a mi” (Buongiorno, la bombona va a me) e ricevere finalmente il tanto aspettato dono.

Ma cos’è esattamente la “bombona”?

Il “bracedel”, conosciuto anche come “bracel”, è un dolce tipico delle nostre zone, un pane dolce che i padrini di battesimo vanno a comprare o addirittura preparano personalmente per il proprio “fioc” o la propria “fiocia”, ovvero il proprio figlioccio o figlioccia, fino al compimento del loro diciottesimo anno. Niente vieta però di poterlo richiedere anche dopo per chi, come la sottoscritta, ha bisogno di un pretesto in più per non pensare agli anni che scorrono e vuole ammirare ancora una volta il mondo con gli occhi dei più giovani.

Mia nonna me lo raccontava sempre quanto per lei fosse importante quel momento, e così con la sua stessa trepidazione cercherò anche io di portare avanti questo messaggio. Attimi di unione che non solo emozionano i più piccoli, ma anche i più grandi che porgendo questo dono, possono augurare il meglio per l’anno appena iniziato.

Ecco forse la vera chiave delle nostre tradizioni, un legame comunitario che ci accomuna e che ci rende uniti anche solo per qualche istante, un legame che in un anno come il 2020 è sicuramente venuto a mancare in parte e che può darci la forza di ripartire, insieme.

Che questa “catena” possa non svanire mai.

Avete anche voi delle tradizioni per salutare il nuovo anno? Condividetele con noi! 

Un Natale intimo e tranquillo

“Bon Nadél a duc” (che in italiano viene tradotto: “Buon Natale a tutti”) è una tra le frasi in lingua ladina più usate in questo periodo nella nostra amata Fata delle Dolomiti per augurare un sereno Natale a tutta la famiglia.  Da anni a Moena alla Vigilia di Natale, amici e parenti si incontrano nelle piazze del paese per scambiarsi gli auguri e per assaporare un buon e caldo vin brulè in compagnia, prima di trascorrere il Natale in famiglia.

Moena ogni anno in questo periodo di festività si popola con i turisti, ragazzi che tornano a casa dalla scuola e dall’università e lavoratori che tornano in paese per trascorrere le festività con i propri cari. Le strade e le vie a ridosso del centro iniziano a prendere vita e a rilasciare quello spirito natalizio che trasmette felicità, anche grazie alle bellissime e fitte luci che decorano le case, i balconi e gli alberghi del paese.

Anche quest’anno così tanto particolare caratterizzato da innumerevoli cambiamenti, l’atmosfera natalizia che si può percepire nell’aria mi lascia senza fiato: decorazioni a tema ed illuminazioni festose riempiono il cuore di tranquillità e rendono il paese gioioso.

Nonostante le persone, gli addobbi e l’illuminazione del paese siano minori degli anni scorsi, il panorama e il clima festivo generale del paese restano a mio avviso incantevoli e anzi, grazie alla neve acquisiscono ancora più qualità natalizie. Le strade che risultano meno trafficate fanno risaltare maggiormente quegli aspetti di condivisione ed incontro tra le persone e gli abitanti del paese, trasmettendo un forte senso di intimità che forse gli anni scorsi non notavo così chiaramente.

Voi come state vivendo il clima natalizio? Condividete con noi una foto del vostro paese o della vostra città 🎄

I Coscritti a Moena

Una generazione festeggia la maggiore età

 

Il 26 dicembre ovvero il cambio del cappello dei coscritti è la data più attesa da tutti i ragazzi di Moena. È la data che simboleggia l’anno più bello della giovinezza, è l ‘anno che tutti ricorderanno per sempre. L’anno in cui gli amici di infanzia festeggiano insieme, in allegria e spensieratezza, l’arrivo della maggiore età tanto aspettata.

La giornata inizia presto con una calda colazione in compagnia con i propri amici d’infanzia per poi proseguire con la messa in cui i coscritti dell’anno precedente si incontrano con quelli che gli subentreranno in un simbolico cambio della guardia. Si festeggia la fine di un anno memorabile e l’inizio di un altro altrettanto indimenticabile.

Ricordo che in quella giornata eravamo tutti un po’ agitati, emozionati e felici. Si vagabondava tutti assieme  per Moena schiamazzando allegramente nonostante il freddo e la neve che continuava a scendere.

In quella giornata il paese era affollato di turisti provenienti da tutta Italia. Quando ci incontravano per il paese non perdevamo l’occasione di farci notare con il nostro cappello da coscritti ornato di fiori dai colori sgargianti e fettucce colorate, con il grembiule blu decorato con il nostro cartone animato d’infanzia preferito o con un disegno che ricordava noi stessi, il fischietto e una tazzina appesa al collo da riempire di tanto in tanto di birra.

Cantavamo e ballavamo per le vie e le due piazze di Moena e succedeva spesso che, tra stupore e divertimento, i turisti ci chiedessero la motivazione di tutto ciò e noi orgogliosamente raccontavamo loro della nostra bellissima usanza. Tra una chiacchiera e l’altra capitava che qualche turista ci chiedesse di posare insieme a loro per portarsi via un ricordo della nostra comunità e della nostra splendida tradizione.

Vi aspettiamo il prossimo anno per un’altra meravigliosa e indimenticabile giornata di tradizione e festa!

La prima neve

Moena in inverno

I campi e i monti

Sono scomparsi sotto il manto nevoso

È il nulla

(Naito Joso)

Ho cercato sul vocabolario la parola neve ed ho trovato questo: “precipitazione atmosferica costituita da minuti cristalli di ghiaccio dalla struttura esagonale più o meno ramificata.”

Per i bambini neve significa gioia, amici, giochi e poi infreddoliti tutti a casa per una buona cioccolata calda.

Per noi la neve segna l’inizio di una nuova stagione con l’arrivo di turisti che animeranno le nostre strade e piazze vestite a festa. La Fata delle Dolomiti  cambia completamente abito ed indossa un vestito elegante, è pronta ad accogliere tutti e a regalare emozioni uniche e speciali per vivere delle esperienze indimenticabili.

Con l’arrivo della neve, infatti, per noi valligiani ha inizio un nuovo mondo. Le nostre amate cime, i sentieri boschivi, i panorami, i laghi e anche le semplici stradine di paese cambiano completamente aspetto, ma, nonostante le temperature rigide e difficili, riescono a regalare un’accoglienza unica e calorosa che tutti amano!

Amico, accendi il fuoco

Ti mostrerò

Una palla di neve.

(Matsuo Basho)

Avete mai provato a fare delle suggestive passeggiate con la ciaspole e godere dei nostri meravigliosi e spettacolari paesaggi?

Avete mai provato la sensazione adrenalinica nello scendere con lo slittino in mezzo al bosco al chiaro di luna?

Avete mai guidato una fat-bike sulla neve?

Avete mai costruito un pupazzo di neve o un igloo oppure pattinato su un lago ghiacciato?

Ecco che cosa racchiude per noi il significato della prima neve!

Neve limpida

Passerella di silenzio

E di bellezza

(Yuko)

E’ libertà, svago, divertimento e amore per il nostro territorio.

Anche per te la neve è importante?

 Scrivi qui sotto cosa ne pensi 👇

“Misteri, avventure e magiche creature. La val di Fassa tra fantasia e realtà” di Alberta Rossi

Ora che conosciamo bene la scrittrice Alberta Rossi vogliamo parlarvi del suo ultimo libro “Misteri, avventure e magiche creature. La val di Fassa tra fantasia e realtà”. Non mancheranno alcune curiosità sulla nostra amata Fata delle Dolomiti e qualche consiglio speciale  per visitare Moena al meglio!

Nell’ultimo libro che hai scritto “Misteri, avventure e magiche creature. La val di Fassa tra fantasia e realtà” ci sono 3 racconti che parlano proprio di Moena. Senza svelare il racconto ci vuoi dare qualche cenno?

Prima vorrei precisare che tutti i racconti si sviluppano in un registro che è a metà tra la fantasia e la realtà. Dunque, ci sono elementi di fantasia e altri reali come l’ambientazione. A tal proposito ci tengo a dire che ogni racconto, oltre a proporre delle illustrazioni molto belle di Elena Corradini, è accompagnato anche da una cartina che si può utilizzare per ripercorrere di persona i luoghi del racconto.

Inoltre, i racconti di questo libro vanno tutti a svelare i soprannomi degli abitanti dei singoli paesi e in qualche caso anche delle frazioni e Moena da questo punto di vista ne ha molti, tant’è che ho scritto ben tre racconti ambientati qui.

Il primo ha per titolo “La sorgente misteriosa” ed è ambientato a Forno di Moena. La particolarità di questo racconto è che ci porta a scoprire un luogo particolare la cosiddetta “Cava del bol” di Valsorda, una cava situata nell’alta Valsorda dove si estraeva l’ematite rossa, un minerale ferroso presente abbastanza frequentemente in natura che deve il nome al suo colore naturale. In ladino è detto “bol”. Dalla sua estrazione in passato si otteneva una tinta che veniva impiegata per scrivere e dipingere sui sassi e per decorare le case. Sono migliaia i segni lasciati sulle rocce, in particolare dai pastori nel corso della loro attività in montagna. La loro datazione va dalla preistoria all’età contemporanea. Se ne trovano ancora oggi sui massi sparsi lungo i pascoli abituali della popolazione di Medil ma anche sul lato orientale della media Valsorda, nonché sui versanti del monte Cornón, in val di Fiemme, e a sud del gruppo dolomitico del Latemar. E il soprannome degli abitanti di Forno è “musciac”, asini in italiano.

Il secondo svela il soprannome degli abitanti del paese di Moena che è “porcie” maiali, e questo racconto a me piace molto perché porta il lettore all’alpeggio di Moena, l’Alpe di Lusia, in autunno quando tutto si colora dei bellissimi colori autunnali oltre ad avere un finale particolare che ci porta fino a Penia di Canazei.

Nell’ultimo racconto invece troviamo i soprannomi delle tre frazioni principale del paese che sono Sorte dove abbiamo i cornacins o cornacchie, Someda dove abbiamo i cegn o cani e Pecé dove troviamo le rane.

Questo racconto è molto divertente e ha un personaggio particolare che è Don Enrico ispirato alla simpatia e al buon cuore dell’attuale vero parroco di Moena, Don Enrico. Lui assieme a tre ragazzi saranno coinvolti in una bella avventura a caccia di una strega.

Non voglio dirvi di più per non rovinarvi il racconto.

La tua conoscenza del paese di Moena va oltre le leggende, il territorio e la tradizione. Ci sono molte curiosità che conosci di Moena, vuoi raccontarcene qualcuna?

Possiamo dire senz’altro alcune curiosità come, ad esempio, che il vecchio nome del paese “Moyena” rinvia ad un luogo acquitrinoso tant’è che lo stemma ottocentesco del paese riporta un uomo su una barca.

Per rimanere invece sempre nell’ambito della leggenda, tutti sanno che Moena è chiamata anche la fata delle Dolomiti, ma in pochi sanno il perché.

Brevemente vi dico cosa accade. Tutto ebbe origine in tempi antichissimi quando sul Catinaccio viveva un popolo di nani con il loro re Laurino. Questo regno era nascosto da un bellissimo giardino di rose e pochissime persone osavano avvicinarsi. Un giorno Ladinia, la figlia del re, vide in lontananza un cavaliere, se ne innamorò e da quell’istante tutti i giorni felice cantava il suo amore. Il vento portò quella melodia al principe che un giorno arrivò fino al castello e portò via con sé Ladinia che, anche se dispiaciuta perché abbandonava il padre e il regno, fu felice di andare incontro a una nuova felicità.

Re Laurino però venne a sapere dal vento cos’era successo e se la prese con le rose del suo giardino perché con il loro colore avevano attirato il principe e fatto scoprire il suo regno, tradendolo. Così lanciò la maledizione e trasformò in pietra tutto il roseto affinché non si potesse vedere né di giorno, né di notte. Si dimenticò però del tramonto e ancora oggi, al crepuscolo, si vedono le rose rosse del giardino incantato. Da quel giorno quella montagna è chiamata Rosengarten, “Giardino delle rose”, e quel fenomeno così suggestivo che al crepuscolo tinge di rosa le cime è detto Enrosadira e caratterizza tutte le Dolomiti.

Trascorsero degli anni, Ladinia e il principe del Latemar, nel frattempo, avevano avuto tre figlie ed erano felici. Un giorno però il principe venne chiamato in guerra sul Ciadinon e per stargli vicino Ladinia e le figlie si trasferirono sulla conca soleggiata di Moena e sul sentiero che dal Latemar scende a Rancolin dalle orme lasciate dalla fata crebbero delle rose.

A Ladinia piacque talmente tanto Moena che da quel giorno cambiò il suo nome in quello di Moena. Inoltre, ancora oggi, se si raggiunge la località Rancolin, dove Moena dimorava, si possono ammirare delle bellissime rose canine, fiori che sbocciavano ovunque lei passasse.

Vuoi dare qualche consiglio a chi vuole visitare Moena?

Volentieri. Vi invito a scoprire la fata delle Dolomiti a 360°. Moena oltre ad avere molte bellezze naturali offre molto altro. Vi invito dunque a scovare i sentieri meno battuti e a visitare zone poco frequentate come i boschi. Vi consiglio di scoprire non solo le bellezze naturali di Moena, ma anche quelle culturali che vanno dalla sua storia alla sua lingua, specchi anch’esse di un paese che ha tanto da offrire. Vi invito a visitarla tutto l’anno, anche l’autunno e la primavera qui sono magici.

 

Sei vuoi rimanere sempre aggiornato segui il blog di Alberta.

La ricetta speciale delle trippe di mamma Rosetta

Trippe

Fiera di tutti i santi

Fra pochi giorni, più precisamente il 2 novembre, ci sarebbe stata la fiera più importante di Moena: La Fiera di Tutti i Santi. Come da tradizione, i valligiani si sarebbero radunati nelle strade della Fata delle Dolomiti per festeggiare e trascorrere una giornata tra risate e divertimento, e le vie principali del paese si sarebbero profumate di mosto, caldarroste e di TRIPPE.
Purtroppo, quest’anno l’evento è stato annullato, ecco perché abbiamo pensato di portare una parte di tradizione direttamente a casa tua condividendo la ricetta speciale delle TRIPPE di mamma Rosetta.

RICETTA DELLE TRIPPE DI MOENA

Ingredienti per 4 persone

• 1 kg di trippe
• Olio q.b.
• 1 costa di sedano
• 1 porro grande
• 1 cipolla
• 3 foglioline d’alloro
• 1 stecca di 3 cm di cannella
• 2/3 chiodi di garofano
• Buccia di mezzo limone
• 1 cucchiaino di noce moscata
• 1 dado
• Pane di segale a piacimento

Preparazione

Prima di iniziare a cucinare prepara la cannella, i chiodi di garofano e la buccia di limone in un sacchettino.
Prepara il brodo e lascialo sobbollire a fiamma bassa.
Inizia con la pulizia delle trippe, quindi riponile in uno scolapasta e risciacquale per bene sotto l’acqua corrente. Taglia a cubetti il sedano, il porro e la cipolla.

In una casseruola versa l’olio extravergine d’oliva insieme al trito aromatico di sedano, porro, cipolla, aggiungi le foglioline d’alloro, lascia insaporire per qualche istante a fiamma bassa e infine aggiungi le trippe. Aggiungi il sacchettino preparato in precedenza degli aromi e copri tutto con il brodo. Aggiungi la noce moscata e lascia sobbollire a fiamma bassa per circa 3 ore.
Nel frattempo, tagliare a dadini il pane di segale, e aggiungilo 10 minuti prima di servirlo.

Consiglio
Le trippe sono ancora più buone se servite il giorno dopo. 😉

Conservazione
La trippa può essere conservata in frigorifero per 1-2 giorni al massimo coperta con la pellicola trasparente.

Ora è il tuo turno! Prepara anche tu le trippe e condividi con noi la tua esperienza! 📷

La tempesta Vaia

Tempesta Vaia

Provate a chiudere gli occhi e a sentire rumori che mai prima d’ora avete sentito… che cosa provate?
Paura? Impotenza? Curiosità?

Queste sono solo alcune delle sensazioni che abbiamo provato la notte del 29 ottobre del 2018, quando la tempesta Vaia ha sconvolto e cambiato il nostro rapporto con la natura!

La pioggia scendeva violentemente ormai da ore quando il vento si è alzato e sembrava non smettesse mai! Attorno alle 16:00 la corrente elettrica inizia a mancare in diverse zone di Moena, va e viene  fino a cessare definitivamente e lasciare un intero paese al buio
Vento, scroscio, tuoni e tanti altri rumori che, in quel momento nessuno di noi riusciva bene ad identificare ed  a capire,  ci facevano sentire piccoli ed impotenti. Nessuno di noi poteva immaginare cosa stesse accadendo.

Al primo chiarore il paese si sveglia e…che cosa è successo?… il bosco è diverso…ci sono radure MAI viste…il vento! È stato il vento! 

 
Tempesta Vaia

Un vero cataclisma. Un intero bosco piegato, radici grandi, spesse e possenti completamente sollevate da terra.
La Natura attorno a noi, come lo conoscevamo, era cambiata e stravolta ed i boschi che circondavano il paese erano completamente mutati e con essi tutte i sentieri. Siamo rimasti senza corrente elettrica. Tutto bloccato: social network, televisione, frigorifero e riscaldamento. Avevamo fatto un salto indietro di cinquant’anni. Non più WhatsApp ma tempo per parlare.
Abbiamo aperto il cassettone, ormai finito nel dimenticatoio, preso le carte da gioco e altri giochi, ormai, completamente impolverati. Abbiamo riscoperto il piacere di stare insieme condividendo il tempo. Abbiamo cucinato un piatto di pasta con la stufa a legna e abbiamo cenato a lume di candela.
Dopo cena ci siamo accoccolati sul divano e abbiamo iniziato a parlare di sogni, idee e progetti che prima non avevamo mai avuto l’occasione di condividere.

Nonostante il disagio e la paura creati dalla tempesta Vaia, ho un ricordo indelebile dei due giorni senza social e tecnologia. In quell’ istante ho capito l’innumerevole quantità di tempo sprecato collegata ai social e di quanto piccoli e spesso impotenti possiamo essere davanti alla forza della Natura.
Il tempo è la cosa più bella e preziosa che ognuno di noi ha. Per questa ragione dobbiamo scegliere con cura e attenzione con chi vogliamo condividere il nostro tempo e dargli il giusto valore.
Per molti di noi la tempesta Vaia ha segnato l’inizio di una nuova sfida!
La vita ci metterà sempre davanti a difficoltà, ma sta a noi scegliere se affrontare quei momenti come difficoltà o come opportunità di crescita.

Il Principe pitocco e l’unguento magico 2 parte

L'origine del soprannome di Moena

3ª PARTE

Chi ti dà del maiale pensando di offenderti è uno stolto, giacché non solo non conosce la tua storia, ma nemmeno il valore di un maiale. Devi sapere che, moltissimi anni fa, a Moena viveva un uomo di sangue nobile e molto ricco. Abitava in un castello e si racconta fosse addirittura un principe».
Vigilio ascoltava attento: «A Moena un principe? Un castello? Wow…». «Lungo la strada Salejada, dove ancora oggi c’è un edificio detto Ciastel de la pitocaia, “Castello della pitoccheria”», proseguì suo padre, «abitava il principe con la sua servitù. Possedeva terreni, bestiame, cavalli e una grande stalla con tantissimi maiali. Come ben sai, il maiale è sempre stato un animale prezioso per l’uomo. Del maiale non si butta nulla, nemmeno il sangue. Pensa che tua nonna con il sangue preparava una torta, e sapessi come buona!».
Non vi dico le smorfie che faceva Vigilio. Che disgusto! Per fortuna sua madre non faceva torte simili! «E poi», continuò il padre, «il maiale è un animale intelligente: ha orecchio e naso molto fine, tant’è che in altre parti d’Italia viene impiegato nella ricerca del tartufo. Comunque… torniamo al principe. Si chiamava Vigilio come te, in onore del nostro santo patrono, e parte della sua fortuna l’aveva fatta proprio grazie ai suoi maiali. Egli vendeva la carne e con il grasso preparava un unguento particolare, usato per guarire le malattie della pelle, come per esempio il fuoco di sant’Antonio. Era un gran devoto di questo santo e, come lui, realizzava questo unguento miracoloso. Per questo aveva voluto nel suo castello una cappella, e sulla porta della stalla aveva fatto dipingere un bel ritratto del santo con accanto un maiale e altri animali domestici.
Il principe era ricco, ma aveva anche la fama di essere molto tirchio. Perciò si era guadagnato il soprannome di Prinzipe pitòch, ovvero “Principe pitocco” e il castello era chiamato quindi Ciastel da la pitocaia, “Castello della pitoccheria”.
Si racconta che, una volta all’anno ‒ ed esattamente il due di novembre in occasione della Fiera di sènc, la Fiera dei santi, organizzata in occasione della festa di Ognissanti appunto ‒ il principe si presentava con la sua servitù per commerciare i maiali e l’unguento. Persone provenienti da tutti i paesi della valle e dalle valli vicine giungevano a Moena per mercanteggiare, soprattutto animali. Era bello vedere tanti animali in giro per il paese e in particolare tutti quei maiali. Il suono di campane e campanellini di ogni misura rendeva il tutto allegro e festoso, soprattutto per i bambini.

Un anno però c’era stata una grande carestia. In quell’occasione l’atmosfera era stata ben diversa. In paese era giunta poca gente, gli animali erano pochissimi e ancora meno le persone che potevano spendere o che avevano qualcosa da offrire. Non era stata una festa come le altre: di allegro aveva avuto ben poco e si era conclusa prima del solito. Quella sera, fra le persone che tornarono a casa dalla fiera, c’era anche il principe. Era molto triste, non tanto per gli affari miseri, quanto perché avvertiva un grande disagio. Era sì tirchio, ma in realtà aveva anche un gran cuore e non sopportava l’idea che la sua gente fosse in miseria. Sapeva che avrebbe potuto fare qualcosa… ma cosa? Cosa poteva fare per aiutare tutta quella gente? Si recò nella cappella e pregò sant’Antonio. Gli affidò i suoi pensieri, si recò a letto e, come spesso avviene, la risposta gli fu rivelata in sogno.
Il giorno seguente, di primo mattino, si alzò di buonumore e mandò a chiamare il suo servitore più giovane e gli disse: «Domani è domenica. Dopo la messa chiamerai a raccolta tutti i capifamiglia del paese e dirai loro che si facciano trovare alle due del pomeriggio nel mio prato a Someda. Loro sanno qual è. Lì, porterai tanti maiali quanti ne bastano per sfamare le famiglie più povere del paese di Moena. Loro ti aiuteranno. Una volta terminato, qualcuno ti darà una mano a portarne quanti ne servono a Soraga. Poi proseguirai e ne porterete quanti ne occorrono a Vigo e così di seguito, fino ad Alba e Penia di Canazei. Ad Alba gli uomini di tutta la valle costruiranno una chiesa dedicata a sant’Antonio, il quale proteggerà le case e le stalle della gente di Fassa e non conosceremo più carestia».
Il giorno seguente, su quel prato, che da quel giorno si chiama Ciamporcel ‒ ovvero “Campo del maiale” ‒ le famiglie più povere del paese ricevettero in dono un maiale, e una carovana di maiali partì alla volta dell’alta valle. Non potete nemmeno immaginare quale gioia portò ovunque quello scampanellìo. Ogni giorno la spedizione raggiungeva un nuovo paese, e quando arrivò a Penia, la fama del Principe Vigilio era giunta perfino nelle valli limitrofe. Quell’autunno e quell’inverno molti furono gli uomini che si diedero da fare per la costruzione della chiesa e, dall’anno seguente, il 17 gennaio, festa di sant’Antonio Abate, tutta la popolazione della val di Fassa si reca a Alba per la sagra e fa una grande festa.
Caro Vigilio, è da allora che gli abitanti di Moena vengono soprannominati “maiali”, dunque vanne fiero e ricorda che è importante conoscere le proprie radici: attraverso di esse puoi capire molto di te, della tua famiglia e della tua storia».

FINE

Ti sei appassionato alla storia di Alberta Rossi? Leggi il suo blog, oppure ordina il libro con un semplice clic: Misteri, avventure e magiche creature – Curcu Genovese. 

Il Principe pitocco e l’unguento magico

Moena

1ª PARTE

Vigilio era un ragazzo di Moena. Abitava vicino a Piazza Ramon, in una stradina chiamata Strada de Ciavadela. Aveva tredici anni, era “quasi un uomo” come gli diceva suo padre, ed era molto vivace. La sua grande passione era il bosco: gli piaceva trascorrere il tempo nei boschi sopra casa, scoprire la natura e i suoi segreti. Stava ore intere a osservare un formicaio oppure ad aspettare che uno scoiattolo scendesse da un abete. Osservare la natura e rispettarne i tempi erano due attività che aveva appreso dal padre il quale era un cacciatore anche se, in verità, un po’ anomalo. Infatti egli amava gli animali e la licenza di caccia l’aveva conseguita da giovane quando per poter mangiare ci si doveva arrangiare soprattutto con quello che offriva la natura. A quei tempi i fucili non erano un granché, la licenza costava poco e chi andava a caccia doveva camminare molto.
A casa sua, quando si uccideva un animale, si faceva una sorta di festa e tutto veniva eseguito seguendo un rituale. Si ringraziava l’animale per il nutrimento che offriva, e si imparava anche a conoscerlo e a prendersene cura, se necessario, durante la sua vita. Quando ad esempio, durante gli inverni gelidi, i caprioli uscivano dal bosco e si avvicinavano alle case in cerca di cibo, si preparavano al limitare del bosco alcune mangiatoie con fieno e pane secco.
Vigilio aveva sentito suo padre raccontare di quei tempi un’infinità di volte. Quando andavano a caccia, facevano lunghe camminate e parlavano molto. Una volta arrivati, si posizionavano in posta, come si dice in gergo, appoggiavano il fucile su una piccola altura e si abbandonavano ad ammirare il sole che nasceva o che tramontava. Se poi passava di lì un animale, grande o piccolo che fosse, lo osservavano sempre con grande stupore. Di rado uccidevano. Per loro andare a caccia era prendersi del tempo per sé, stare a contatto con la natura e anche farsi qualche confidenza.
Anche quella sera d’autunno Vigilio e suo padre erano andati a caccia. Il sole sarebbe tramontato da lì a poche ore. Avevano preparato gli zaini ed erano saliti all’Alpe di Lusia, l’alpeggio di Moena. Lassù, in quella stagione, c’era una pace incredibile. I colori erano straordinari e chiunque, una volta visti, avrebbe faticato a non cedere alla tentazione di tornare per ammirarli. Il sole stava quasi scomparendo. Le lunghe ombre dei larici sembravano animarsi. Era fantastico. Su un colle, avvolti in una coperta, Vigilio e suo padre si godevano in silenzio quello spettacolo.
Il ragazzo era insolitamente taciturno e suo padre, che lo conosceva bene, gli chiese cosa avesse. Vigilio raccontò che quel giorno a scuola un suo compagno l’aveva preso in giro dicendogli che era un maiale poiché gli abitanti di Moena vengono soprannominati porcìe, ovvero “maiali”, ma egli non ne era a conoscenza e non comprendeva nemmeno la ragione di quell’appellativo poco elegante. Perciò c’era rimasto malissimo e non aveva saputo replicare.
Il padre scoppiò a ridere, lo guardò negli occhi e disse: «Figlio mio, è ora che tu conosca le tue radici.

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