Zuccherini alcolici: come concludere un pasto in allegria

Chiudiamo gli occhi.

Dimentichiamoci per un attimo del presente per tornare, almeno a livello concettuale, a quelle che sono sempre state le nostre abitudini, la nostra quotidianità, insomma un anno qualsiasi in cui la stagione invernale è partita regolarmente: impianti e rifugi aperti, hotel e appartamenti prenotati fino a Pasqua, strade trafficate da macchine e pedoni e bar e ristoranti che lavorano senza sosta.

Immaginiamo, insieme…

La sveglia suona. È presto, sono le 7 appena. Ci affacciamo alla finestra, il meteo aveva previsto bene, è una splendida giornata di sole, neanche una nuvola a coprire il cielo di Moena. Esatto, ci troviamo a Moena, nel cuore della Val di Fassa e, prima di iniziare concretamente la giornata, ci soffermiamo per qualche istante a godere dello spettacolo che abbiamo di fronte: quel panorama che fino a qualche giorno prima ammiravamo con un pizzico di invidia solo dalle cartoline ricevute dagli amici di una vita ma che ora, finalmente, abbiamo davanti ai nostri occhi.

Riprendiamo fiato, non c’è tempo da perdere: ci prepariamo per una giornata da vivere a pieno, con gli sci in spalla ed immersi nel bianco che ci circonda. Cerchiamo così di goderci ogni secondo di quell’esperienza, dall’emozione nel risalire gli impianti, al divertimento di sciare spensierati pista dopo pista, senza preoccupazioni esterne, staccando per una volta la mente dallo stress quotidiano.

Il tempo quando si sta bene vola, si sa, e così si è già fatta ora di pranzo. Andiamo nel rifugio che ci è stato consigliato proprio da loro, i nostri amici che tanto erano affezionati a quei posti. Ci hanno sempre raccontato di quanto fossero accoglienti i ristoratori di montagna, e di quanto l’anziana proprietaria di quel rifugio trattasse ogni cliente come un membro della sua famiglia. E proprio come ci avevano raccontato, per qualche ora ci siamo sentiti come a casa, bene, e, tra una chiacchiera, un bel piatto caldo e qualche calice di vino, è arrivato il momento di pagare e rimettersi in pista. Ma è in quel momento che veniamo fermati proprio dalla proprietaria del rifugio: non possiamo andarcene senza aver provato i suoi zuccherini alcolici che lei stessa ha preparato con cura da offrire ai propri clienti, “il modo migliore per scaldarsi e digerire allegramente”.

Sono riuscita a farvi viaggiare insieme a me, almeno per qualche istante? Facile vero? Alla fine non si tratta che di ricordi, e, in caso contrario, ho qui pronta la preparazione proprio degli zuccherini alcolici, zollette di zucchero lasciate a riposare nell’alcol ed aromi vari, tipici di molti luoghi di montagna. Essendo che in questo periodo non possiamo assaporarli in alta quota data la riapertura posticipata degli impianti, niente ci vieta di prepararli direttamente a casa così da riportare alla realtà almeno una parte di queste nostre fantasie.

INGREDIENTI:

– Un vasetto di vetro

– Alcol puro (alimentare) q.b.

– Zollette di zucchero q.b.

– Aromi, spezie, erbe a volontà

È una procedura molto semplice dove l’unica dote richiesta non è altro che la fantasia!

La prima cosa da fare è procurarsi un vasetto di vetro, meglio se a chiusura ermetica ma anche vecchi vasetti di marmellate o miele vanno benissimo: è sempre un piacere poter riutilizzare oggetti già presenti all’interno delle nostre case.

Ora è il momento di inserire le zollette di zucchero alternate dai vari aromi all’interno del vasetto di vetro, per poi riempirlo fino all’orlo di alcol puro o in alternativa, si può utilizzare anche la grappa.

Per quanto riguarda gli aromi, è proprio qui che entra in gioco la fantasia sopra citata, senza limiti né confini, date spazio all’immaginazione e alla soddisfazione del vostro palato: si può spaziare dalla menta ai chiodi di garofano, dalla buccia di vari agrumi alle bacche di vaniglia, insomma, nessun vincolo se non il vostro gusto personale.

A questo punto non rimane che sigillare per bene il barattolo e lasciarlo riposare per circa un mese di tempo, meglio ancora se in un posto soleggiato.

Trascorso il tempo necessario, è giunto nuovamente il momento di chiudere gli occhi e volare con la fantasia, ma, diversamente da prima, con uno zuccherino in mano, pronto da assaporare, sentendo questa volta il profumo dei ricordi di montagna un po’ più vicini e concreti, e pronti per ripartire, più carichi che mai, appena tutto sarà pronto e sistemato.

“Bondì, bombona a mi”

Qual è la vera importanza delle tradizioni? Che rilevanza può avere tramandare, di generazione in generazione, un’idea, un concetto, un momento di condivisione e di gioia?

Sono una studentessa “fuori sede” da cinque anni, ho avuto modo di confrontarmi con tanti ragazzi e ragazze provenienti da tutta Italia e non solo. Ho avuto molti momenti di confronto riguardo a questa tematica ed è sempre bello ed interessante poter ascoltare le tradizioni e le usanze tipiche provenienti da nord a sud e oltre, ma ciò che è ancora più bello ed emozionante è vedere gli occhi affascinati di chi ti ascolta quando, con una buona dose di orgoglio e patriottismo, posso raccontare tutte le tradizioni che in Val di Fassa si tramandano da secoli, generazione dopo generazione.

A Moena e in Val di Fassa di tradizioni ne “vantiamo” molte, e non ci facciamo mancare nemmeno un buon saluto al nuovo anno, perché è proprio della magia del primo giorno di ogni anno che vi vorrei parlare.

“Bondì, bombona a mi”.

Ricordo quando da bambina mi svegliavo presto la mattina di capodanno, carica di emozione mi vestivo di fretta perché era arrivato il momento di andare a bussare alla porta della mia “nona” e del mio “non”, termini ladini che indicano rispettivamente la madrina e il padrino di battesimo, per poi recitare la tipica frase “bondì, bombona a mi” (Buongiorno, la bombona va a me) e ricevere finalmente il tanto aspettato dono.

Ma cos’è esattamente la “bombona”?

Il “bracedel”, conosciuto anche come “bracel”, è un dolce tipico delle nostre zone, un pane dolce che i padrini di battesimo vanno a comprare o addirittura preparano personalmente per il proprio “fioc” o la propria “fiocia”, ovvero il proprio figlioccio o figlioccia, fino al compimento del loro diciottesimo anno. Niente vieta però di poterlo richiedere anche dopo per chi, come la sottoscritta, ha bisogno di un pretesto in più per non pensare agli anni che scorrono e vuole ammirare ancora una volta il mondo con gli occhi dei più giovani.

Mia nonna me lo raccontava sempre quanto per lei fosse importante quel momento, e così con la sua stessa trepidazione cercherò anche io di portare avanti questo messaggio. Attimi di unione che non solo emozionano i più piccoli, ma anche i più grandi che porgendo questo dono, possono augurare il meglio per l’anno appena iniziato.

Ecco forse la vera chiave delle nostre tradizioni, un legame comunitario che ci accomuna e che ci rende uniti anche solo per qualche istante, un legame che in un anno come il 2020 è sicuramente venuto a mancare in parte e che può darci la forza di ripartire, insieme.

Che questa “catena” possa non svanire mai.

Avete anche voi delle tradizioni per salutare il nuovo anno? Condividetele con noi! 

Il Principe pitocco e l’unguento magico 2 parte

L'origine del soprannome di Moena

3ª PARTE

Chi ti dà del maiale pensando di offenderti è uno stolto, giacché non solo non conosce la tua storia, ma nemmeno il valore di un maiale. Devi sapere che, moltissimi anni fa, a Moena viveva un uomo di sangue nobile e molto ricco. Abitava in un castello e si racconta fosse addirittura un principe».
Vigilio ascoltava attento: «A Moena un principe? Un castello? Wow…». «Lungo la strada Salejada, dove ancora oggi c’è un edificio detto Ciastel de la pitocaia, “Castello della pitoccheria”», proseguì suo padre, «abitava il principe con la sua servitù. Possedeva terreni, bestiame, cavalli e una grande stalla con tantissimi maiali. Come ben sai, il maiale è sempre stato un animale prezioso per l’uomo. Del maiale non si butta nulla, nemmeno il sangue. Pensa che tua nonna con il sangue preparava una torta, e sapessi come buona!».
Non vi dico le smorfie che faceva Vigilio. Che disgusto! Per fortuna sua madre non faceva torte simili! «E poi», continuò il padre, «il maiale è un animale intelligente: ha orecchio e naso molto fine, tant’è che in altre parti d’Italia viene impiegato nella ricerca del tartufo. Comunque… torniamo al principe. Si chiamava Vigilio come te, in onore del nostro santo patrono, e parte della sua fortuna l’aveva fatta proprio grazie ai suoi maiali. Egli vendeva la carne e con il grasso preparava un unguento particolare, usato per guarire le malattie della pelle, come per esempio il fuoco di sant’Antonio. Era un gran devoto di questo santo e, come lui, realizzava questo unguento miracoloso. Per questo aveva voluto nel suo castello una cappella, e sulla porta della stalla aveva fatto dipingere un bel ritratto del santo con accanto un maiale e altri animali domestici.
Il principe era ricco, ma aveva anche la fama di essere molto tirchio. Perciò si era guadagnato il soprannome di Prinzipe pitòch, ovvero “Principe pitocco” e il castello era chiamato quindi Ciastel da la pitocaia, “Castello della pitoccheria”.
Si racconta che, una volta all’anno ‒ ed esattamente il due di novembre in occasione della Fiera di sènc, la Fiera dei santi, organizzata in occasione della festa di Ognissanti appunto ‒ il principe si presentava con la sua servitù per commerciare i maiali e l’unguento. Persone provenienti da tutti i paesi della valle e dalle valli vicine giungevano a Moena per mercanteggiare, soprattutto animali. Era bello vedere tanti animali in giro per il paese e in particolare tutti quei maiali. Il suono di campane e campanellini di ogni misura rendeva il tutto allegro e festoso, soprattutto per i bambini.

Un anno però c’era stata una grande carestia. In quell’occasione l’atmosfera era stata ben diversa. In paese era giunta poca gente, gli animali erano pochissimi e ancora meno le persone che potevano spendere o che avevano qualcosa da offrire. Non era stata una festa come le altre: di allegro aveva avuto ben poco e si era conclusa prima del solito. Quella sera, fra le persone che tornarono a casa dalla fiera, c’era anche il principe. Era molto triste, non tanto per gli affari miseri, quanto perché avvertiva un grande disagio. Era sì tirchio, ma in realtà aveva anche un gran cuore e non sopportava l’idea che la sua gente fosse in miseria. Sapeva che avrebbe potuto fare qualcosa… ma cosa? Cosa poteva fare per aiutare tutta quella gente? Si recò nella cappella e pregò sant’Antonio. Gli affidò i suoi pensieri, si recò a letto e, come spesso avviene, la risposta gli fu rivelata in sogno.
Il giorno seguente, di primo mattino, si alzò di buonumore e mandò a chiamare il suo servitore più giovane e gli disse: «Domani è domenica. Dopo la messa chiamerai a raccolta tutti i capifamiglia del paese e dirai loro che si facciano trovare alle due del pomeriggio nel mio prato a Someda. Loro sanno qual è. Lì, porterai tanti maiali quanti ne bastano per sfamare le famiglie più povere del paese di Moena. Loro ti aiuteranno. Una volta terminato, qualcuno ti darà una mano a portarne quanti ne servono a Soraga. Poi proseguirai e ne porterete quanti ne occorrono a Vigo e così di seguito, fino ad Alba e Penia di Canazei. Ad Alba gli uomini di tutta la valle costruiranno una chiesa dedicata a sant’Antonio, il quale proteggerà le case e le stalle della gente di Fassa e non conosceremo più carestia».
Il giorno seguente, su quel prato, che da quel giorno si chiama Ciamporcel ‒ ovvero “Campo del maiale” ‒ le famiglie più povere del paese ricevettero in dono un maiale, e una carovana di maiali partì alla volta dell’alta valle. Non potete nemmeno immaginare quale gioia portò ovunque quello scampanellìo. Ogni giorno la spedizione raggiungeva un nuovo paese, e quando arrivò a Penia, la fama del Principe Vigilio era giunta perfino nelle valli limitrofe. Quell’autunno e quell’inverno molti furono gli uomini che si diedero da fare per la costruzione della chiesa e, dall’anno seguente, il 17 gennaio, festa di sant’Antonio Abate, tutta la popolazione della val di Fassa si reca a Alba per la sagra e fa una grande festa.
Caro Vigilio, è da allora che gli abitanti di Moena vengono soprannominati “maiali”, dunque vanne fiero e ricorda che è importante conoscere le proprie radici: attraverso di esse puoi capire molto di te, della tua famiglia e della tua storia».

FINE

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